sábado, 18 de abril de 2020

QUESTA SERA HO VISTO CADERE LA PIOGGIA


Pedro Conde Sturla
(Grado. Ritangela Tomasicchio)


Vagamente ricordo di averti amato. Ora che scivoli furtiva nella memoria, ricordo vagamente di averti amato, la spirale dorata delle tue trecce, il  sorriso distante e capriccioso, il nero dei tuoi occhi, la scintilla che ora accende il rogo di nostalgia. Il rogo che scolpisce, che fa scorgere, alla parola di un poeta, l'immagine fumosa del tuo viso.

Erano giorni di pioggia e di sventura. In quel tempo di pioggia adolescente, l'esigua luce delle sere fioriva nelle tue trecce, intricata come una dolce rosa. In quel tempo, vagamente piovoso, ricordo che ti amavo e ricordo che amavi come me i giorni di pioggia, quei giorni lenti e cordiali in cui il lieve contorno delle cose acquista un doppio aspetto nel profilo dell'acqua 

e l'atmosfera della città si sente densa, pregna di poesia.


C'era un po' di magia nella città piovosa di quei giorni, un'aura di mistero, la malinconica pioggia che cadeva soavemente sopra i miti crepuscoli di aprile e gli ultimi giorni di maggio, il contrasto tra la fitta nebbia e l'incanto delle querce venezuelane dell'Avenida Bolivar in fiammante esplosione di colori ora malva ora di un'incerta sfumatura azzurrina.


Dopo maggio proprio in quel ambiente bucolico, illusoriamente tranquillo, si percepiva un violento contrasto con l'impronta quasi sinistra, l'aria riservata di certe residenze di lusso, scuri abbassati, porte serrate, ville chiuse che sembravano disabitate. Una pesante impressione da patibolo. Il terrore.  Metafora del terrore che invadeva nel profondo tutti gli spazi anche i più intimi e riposti. Il filo di un terrore che tagliava come il ghiaccio. Segnale di coprifuoco e legge marziale. La caccia all'uomo. La soldatesca del regime agonizzante che abbatteva porte e finestre, arrestava 

oppositori, torturava, realizzava esecuzioni sommarie. Il terrore sul letto di morte dopo maggio.

Sembrava che il mondo fosse impazzito all'improvviso e all'improvviso ci respingesse con una brutalità che non avevamo previsto. Il fuoco di mitraglia. Il lugubre movimento delle forze di sicurezza dello stato. Il latrato dei cani.


Di quell'epoca preservo un'immagine tragica nel momento del nostro addio nell'aeroporto. Ci sei tu in quella immagine, al braccio di tua madre, il braccio listato a lutto di tua madre. Il lutto di tua madre. Il pianto di tua madre. I grandi occhi di un rosso acceso, ma glaciali e vacui. Fu un semplice addio tra adolescenti al volgere dell'infanzia, uno di quegli episodi che mancano, apparentemente, di importanza e tuttavia si imprimono per sempre nella memoria e ritornano una volta e un'altra volta nell'insonnia e ritornano nel sogno una volta e un'altra volta.


Ti rividi dopo, molti anni dopo, durante un breve ritorno, quando già quasi non eravamo amici e quasi ci eravamo dimenticati. L'incontro fu piuttosto un disincontro. Gli anni e la vita e la distanza fanno cose terribili come questa. L'abisso del tempo, molte volte, tramuta amici e amanti in estranei. Si era spento l'eco delle nostre conversazioni e il nostro idillio platonico nella sala della tua casa nella calle Cervantes era cosa passata, acqua passata. La nostra relazione restò sempre circoscritta in quello spazio che ora rimaneva abbandonato, ora in vendita. Il fumo del tuo viso era come assente tra quello diffuso di altri volti. Salvo cose banali, non avevamo nulla da dirci.


Già non eri la ragazza con le  trecce né tornavi ad esserlo. Si era 

accennata nel tuo sorriso un'amarezza lieve, e nei tuoi occhi, nerissimi, si era consumata la lucentezza di  un'altra epoca. La voce disincantata, tristissima la voce. L'allegria che accendevano le tue parole. A parte certi dettagli, dai quali non ti avrei riconosciuto nel tuo ampio splendore, lucevi e rilucevi, però non eri la stessa. Andavi a somigliare un poco, lentamente ad un autunno. Sembravi lievemente, degnamente avvizzita.


Un giro di dadi, una svolta del destino ti giocò un tiro, mutò il tuo dolce viso acceso di carminio in questa grave maschera di solitudine, cosparsa di solitudine. Forse le impronte di un amore incurabile.


Ora sono tornato per vederti e già non ci sei. Soltanto trenta anni e già non ci sei né ci sarai per sempre. Ora nel vederti così, perduta tra i sordidi spazi della morte, penso ai giorni di aprile, penso alla pioggia, la memorabile pioggia, di quella adolescenza, penso a quei miti tramonti, quando giurammo che al cadere della sera, come al cadere della vita, dalle finestre della tua casa avremmo visto piovere.






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